Ascolta o Figlio,
gli insegnamenti del Maestro
Nacque a Gubbio nel 1216 dai nobili coniugi Sperandei-Baldassini che alla nobiltà del casato univano la santità della vita. Ferventi cristiani infusero nel cuore della bambina, fin dai primi anni, l’amore a Dio, alla Vergine e alla preghiera. Giovinetta, vinte le opposizioni dei suoi e vestito l’abito di penitente, lasciò la casa paterna. Nella solitudine dei monti, presso Gubbio, si confermò nel proposito di una vita di penitenza, povertà, di preghiera e carità. Percorse pellegrina l’Umbria e le Marche ritirandosi di tanto in tanto in luoghi aspri e solitari a vita di contemplazione e di rigorosa mortificazione. La tradizione dice che si portò anche in Terra Santa. Si recò a Roma ove ottenne di essere ricevuta dal Papa che le regalò due stivaletti. Uno è conservato nella cameretta ove è vissuta, l’altro a Serralta.
Queste peregrinazioni aumentarono in lei l’amore alla Passione di Gesù, infiammarono la sua devozione che si manifestò nell’esercizio delle virtù e di varie opere di carità. Amò i poveri, i bambini, i malati, i peccatori che soccorse e convertì, anche con prodigi. Difese gli oppressi, pacificò fazioni, inducendo al perdono e alla penitenza. Soffrì ingiurie, calunnie e tentazioni.
Ritiratasi nelle grotte di monte Acuti, agli estremi confini del territorio di Cingoli, vi trascorse il periodo più lungo e più rigido di penitenza. Passò a Cingoli gli ultimi anni della sua vita consolando e beneficando tutti. Preso l’abito delle benedettine, ne riformò e rinvigorì la vita religiosa con l’esempio e la santità, trascinando al suo ideale molte giovani, di cui era consigliera e delle quali divenne, nel monastero, guida esperta e madre premurosa.
Morì l’11 settembre 1276. Tanto in vita che in morte operò miracoli e ottenne grazie singolarissime. La storia ricorda: il miracolo delle ciliegie; la pace tra Cingoli e Jesi; la concordia tornata a fiorire tra i cittadini di Recanati; moltissime guarigioni istantanee avvenute non solo in Cingoli ma a Cagli, Pergola, Staffolo, Ancona, Jesi, Gubbio, Recanati, Treia, Venezia ecc. Il culto, ammesso dalla Chiesa, fu riconosciuto nel 1635.
Il corpo si conserva incorrotto da sette secoli in una cappella del Santuario a lei dedicata.
Continui miracoli e grazie attestano anche oggi l’efficacia del ricorso a S. Sperandia.
S’ignorano le origini precise del monastero, il quale entra nella storia per opera di S. Sperandia (1216-1276), originaria di Gubbio e a Cingoli santificatasi nel monastero che ne prese il nome, e ivi venerata come compatrona della città.
Esso si è venuto formando nel corso dei secoli, intorno ad un primo impianto monastico benedettino, già esistente nel luogo sotto il titolo di S. Michele Arcangelo (qualcuno lo fa risalire intorno all’anno 1030/50). Il primo impulso lo ebbe probabilmente proprio dalla Santa, che al termine di una vita di peregrinazioni e di penitenza vi si ritirò, dando luogo, con l’incarico di Abbadessa, a una fiorente comunità religiosa sorta dall’unione delle monache di S. Michele con quelle del vicino monastero di S. Marco fuori porta Mentana.
Dopo un periodo travagliato alla metà del 1300 per difficoltà intestine e sociali, il monastero ebbe un corso felice fino ala termine del sec. XVIII. Le date significative sono tutte collegate al culto di S. Sperandia: celebrazioni centenarie della nascita e morte, consacrazione della chiesa (1560), ricognizione del corpo.
Documenti del 1573 testimoniano che il monastero seguiva l’osservanza camaldolese, e negli anni successivi quella Cassinese. A seguito delle disposizioni tridentine, le monache si assoggettarono alle costituzioni sinodali per le religiose (dicembre 1596). Il 3 marzo 1761 furono concessi Ufficio e Messa propri per la festa di S. Sperandia al monastero e alla diocesi di Cingoli. Il 4 giugno 1923 fu permesso al monastero di adottare le costituzioni delle benedettine di Fano e nel 1969 esso è entrato a far parte della Federazione delle Benedettine Italia. Oggi il monastero fa parte della Federazione Picena delle Monache Benedettine.
Il bel complesso monumentale risale alla metà del sec. XVIII. Gli ultimi restauri, eseguiti in occasione del VII centenario della morte di S. Sperandia, (il cui corpo si conserva incorrotto nel nostro Santuario) hanno portato all’apertura al pubblico della camera della Santa, trasformata in oratorio sacro.
La consistenza numerica della comunità è stata sempre rilevante: nel 1734 essa era composta da quarantasette membri, diminuiti a trentasei nel 1853 e su questo numero si mantenne costante.
La nostra famiglia, lungo i secoli, ha annoverato monache illustri per origine (le due Abbadesse Anna Sperandia e Serafina Castiglioni, zie del Papa Pio VIII) e per santità (M. Luisa Blasi, Ildegarde Paesani).
Il periodo più difficile fu quello che seguì alla soppressione piemontese. Pur non chiuso mai completamente, il monastero si ridusse agli estremi e corse il pericolo di estinzione, se non fosse stato ripopolato, nel 1898, dalle benedettine di Osimo che in numero di ventidue passarono a S. Sperandia dietro interessamento di Mons. G.B. Scotti. Nel 1933 anche le quattro monache cistercensi di S. Caterina si aggregarono a S. Sperandia.
La comunità tuttavia, al presente, sebbene ridotta di numero, ha tutte le premesse per rinverdire le gloriose esperienze del passato. Il monastero si è aperto pienamente al recente rinnovamento conciliare e si è inserito profondamente nell’ambito spirituale e sociale della città. Il santuario di S. Sperandia, frequentato da tanti pellegrini, offre alle monache, la possibilità di esplicare un rilevante lavoro di animazione religiosa.
Il complesso edilizio, rinnovato, accogliente e luminoso, accoglie le giovani in ricerca della propria vocazione, per ritiro ed esperienze. Pur non avendo una foresteria (in via di ristrutturazione) per ospitare gruppi numerosi, accogliamo gruppi che vogliono trascorrere qualche ora con la comunità per uno scambio di esperienze; scolaresche, gruppi che si preparano alla cresima, ecc.
La vita interna è scandita dalla regola di S. Benedetto: l’orazione, il lavoro, la lectio dividono la giornata monastica. La preghiera è mezzo efficace di testimonianza e d’impegno. Per il monaco la liturgia è la via per andare a Dio. Questa è la ragione per cui S. Benedetto disse che “niente deve essere anteposto all’Opera di Dio” (opus Dei: RB 43,3). Centro della Liturgia è la celebrazione eucaristica, il memoriale del sacrificio di Cristo. Da questo grande centro dell’Eucaristia, la liturgia si irradia per santificare ogni momento della giornata attraverso le ore canoniche dell’ufficio divino, il sacrificio di lode della Chiesa. Altro momento della giornata è riservato alla “lectio divina” in cui si approfondisce la conoscenza della S. Scrittura, dei Padri e dei Documenti della Chiesa. S. Benedetto le accorda una particolare attenzione nello stabilire l’orario dei monaci. “Lectiones sanctas libenter audire” (RB 4,55).
L’Ordine di San Benedetto (in latino Ordo Sancti Benedicti) è una confederazione che riunisce congregazioni monastiche e monasteri autonomi che perpetuano l’ideale religioso del monachesimo benedettino in conformità con la regola e lo spirito di S. Benedetto, i monaci benedettini pospongono al loro nome la sigla O.S.B.
Le origini del monachesimo benedettino risalgono alla fondazione, attorno al 529, del cenobio di Montecassino a opera di San Benedetto da Norcia.
La regola redatta da Benedetto per la sua comunità si diffuse rapidamente anche grazie al sostegno di Papa Gregorio Magno e venne adottata, spesso accanto ad altre, da numerosi monasteri europei: si affermò definitivamente nell’817, quando il capitolare monastico di Aquisgrana, di cui fu ispiratore Benedetto di Aniane, la impose a tutti i monasteri franco-germanici.
Lo spirito del monachesimo benedettino è sintetizzato dal motto “Ora et Labora”: oltre che alla vita contemplativa, infatti, viene data grande importanza al lavoro manuale.
I monasteri benedettini, tutti autonomi, iniziarono a riunirsi in congregazioni nel X secolo. Nel 1893 Papa Leone XIII ha riunito le congregazioni e i monasteri benedettini in una confederazione sotto la presidenza di un Abate Primate residente nel monastero di Sant’Anselmo all’Aventino a Roma.
BENEDETTO nacque a Norcia verso il 480 e morì a Montecassino verso il 547. La sua vita è raccontata da Gregorio Magno nel II libro dei DIALOGHI. Nacque da una famiglia agiata e andò a Roma per gli studi. Li abbandonò, disgustato dal clima di decadenza morale e si ritirò in solitudine in una grotta presso Subiaco dove visse come eremita. Lì vicino c’erano dei monaci. Uno di essi, Romano, lo trova ed intuisce il suo progetto. Gli dà l’abito monastico e gli viene in aiuto recandogli di nascosto del cibo. La fama di S. Benedetto si diffuse e venne chiamato a guidare la comunità di monaci di San Cosimano a Vicovaro ma l’esperienza fu negativa: ben presto i monaci, preoccupati per l’eccessiva austerità e disciplina di Benedetto, tentarono di avvelenarlo. Il patriarca si ritirò di nuovo a Subiaco.
Dopo questa esperienza, egli intraprese una nuova forma di vita monastica: organizzò un gruppo di monaci suddiviso in dodici comunità di dodici monaci. Ciascuna comunità aveva un proprio superiore mentre Benedetto conserva la direzione generale. L’invidia di un prete costringe Benedetto ad abbandonare quei luoghi con un gruppo di discepoli: fra di essi Mauro e Placido. Benedetto si diresse verso Cassino, sulla cui altura fondò, nel 529, il monastero di Montecassino destinato a diventare il più celebre in Italia. Lì scrisse la sua Regola e lì morì il 21 marzo probabilmente intorno al 547. (Secondo la tradizione 40 giorni dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica).
REGOLA- Pervaso dalla parola ispirata della Scrittura, nutrito della dottrina dei Padri e di tutta la precedente letteratura monastica, forte della sua stessa esperienza personale, S. Benedetto la scrisse nella pienezza della sua maturità spirituale. Non la redasse di getto, ma tutto l’insieme costituisce un compatto organismo di dottrina e di istituzioni, che giova a spiegare la sua solidità ed efficacia per tutti questi secoli. La dottrina spirituale è tratta dalla S. Scrittura, soprattutto dai Salmi, dai Libri sapienziali, dai Vangeli e da S. Paolo. Il monastero ha il carattere di una famiglia salda, fortificato dal voto di stabilità. Padre, maestro e capo ne è l’abate, da cui dipendono anche tutti i monaci addetti ai vari uffici; ma l’abate stesso è sottoposto alla Regola. Nel monastero, definito “casa di Dio” (31,19), tutto deve procedere in ordine: ognuno ha il suo posto ben determinato, ogni cosa deve farsi a suo tempo e luogo, perché “nessuno in tale casa si turbi o si rattristi” e “ tutte le membra siano nella pace” (33,5).
La vita comunitaria si svolge in un sapiente alternarsi di preghiera, liturgica e privata, e di lavoro della mente e delle mani. E’ il programma sintetizzato nel motto “Ora et labora”. Tutto l’ordinamento disposto dalla Regola, com’è ovvio, mira ad avviare i monaci ad un cammino di santità. Nella vita di fede e di umiltà, essi riconoscono nell’abate colui che fa le veci di Cristo. Da ciò la fondamentale e gioiosa obbedienza. Alla sequela di Cristo, essi si liberano da ogni preoccupazione di beni terreni con la povertà e si consacrano totalmente all’amore divino con la castità, mentre nella comunione di vita con i fratelli trovano le occasioni di far fiorire la carità.
Se l’abate condanna e corregge il difetto e il disordine severamente, da’altra parte sa compatire le debolezze dello spirito e le infermità fisiche; incita alle ascensioni delle virtù ma considera anche la fragilità della natura. “Niente anteporre all’amore di Cristo” (4,21).
La Regola, che il Legislatore chiama “per principianti”, (73,8) ha generato folte schiere di santi e beati fino ai nostri giorni: Agostino d’Inghilterra, Beda, Bonifacio, Gregorio VII, Pier Damiani, Anselmo, Bernardo, Gertrude, Matilde, Ildegarde, ecc., e ora Placido Riccardi, Fortunata Viti, e i cardinali Dusmet e Schuster.